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Il capitalismo non esiste


Spoiler: il capitalismo esiste solo per chi lo critica. Per tutti gli altri non esiste oppure è semplicemente un'opportunità.


«In Europa e negli Stati Uniti, per la maggior parte delle persone sotto i vent’anni l’assenza di alternative al capitalismo non è nemmeno un problema: il capitalismo semplicemente occupa tutto l’orizzonte del pensabile».

Mark Fisher, Realismo Capitalista

Qualche pagina prima, citando la stracitata frase jamesoniana «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo», Fischer spiega ciò che intende con l’espressione “realismo capitalista”: «la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente».

Fisher dice che, per i giovani in particolare, il capitalismo non soltanto è un dato di fatto, ma è l’ambiente naturale e necessario in cui muoversi, mangiare, dormire, incontrare gli altri. In cui esistere. Il capitalismo non si vede perché è tutto ciò che si può vedere; anche se ci fosse qualcosa al di fuori sarebbe impensabile. Sarebbe come pensare un colore nuovo, diverso da quelli che conosciamo. Provateci e vi renderete conto dell’assurdità dello sforzo. Ma col termine “giovani” (Fisher scriveva il saggio una quindicina di anni fa) fino a che generazione si può risalire? Io ci metterei anche la mia, in quanto generazione con un orizzonte non molto diverso da questo di cui Fisher ci parla, non certo per attribuirci alcuna gioventù immotivata. Dal capitalismo pare non si sfugga, già da un po’.

Di fronte a ciò, ma prima di tutto da dentro, le persone si possono dividere grossomodo in tre gruppi (molto meno definiti di quanto sto per fare qui) in base ai diversi atteggiamenti e strategie che mettono in campo quasi naturalmente per vivere.

Il primo, che collocherei in alto nella distribuzione di un grafico ideale, è costituito da una minoranza. È un club esclusivo, se non altro per cipiglio mentale. Chi ne fa parte percepisce il capitalismo come un’opportunità, non come una tara o una piaga. Mi riferisco non necessariamente alle élite economiche, che giocano la vera partita nell’ombra, ma alle élite dello spettacolo, che con la loro agonistica gioiosità pervadono ogni campo in cui ci sia da agire, del sapere, del dovere morale, del sentimento, del divertimento, del destino dell’umanità. Una vera e propria intellighenzia. Sono accelerazionisti senza sapere di esserlo. Li distingue dalla massa la consapevolezza di aver scelto di dominare il capitalismo e non di farsi dominare, di sfruttarlo e spingerlo agli eccessi invece di stare a guardare altri che ne beneficiano. Sfruttare invece di essere sfruttati. Per sfuggire all’onda nera dell’irrilevanza e della massa informe e passiva, di tutti quelli che li seguono come esempi senza poter ambire al loro successo, di chi è solo carbonella, che serve a scaldare le loro vite, le loro ampie stanze. Scelgono di “cavalcare la tigre” e di essere gli artefici del proprio destino. Non solo accettano di buon grado l’orizzonte capitalista ma dettano le regole e gli stili di vita, e si adoperano per far sì che vengano recepiti e rispettati dalla più ampia fetta di popolazione possibile, che tra l'altro non vede l’ora di farlo. Influenzano le scelte, inducono desideri e ispirano emozioni, esibendo le piacevolezze e conquiste che tale sistema può regalare. Una sorta di paradiso in terra – dato che di altri non c’è certezza e nemmeno traccia.

Il secondo, che riempie la pancia del grafico, è il gruppone di maggioranza. Il gruppo degli inseguitori, si dice con una metafora ciclistica. Ovvero quello di chi non si pone il problema circa l’esistenza o meno del capitalismo, della sua pervasività e della mancanza di alternative. Proprio come nella citazione iniziale di Fisher. Lo accetta e basta. Anzi: a dirla tutta il capitalismo per loro non esiste. Non esiste se non concretamente, quando si manifesta in una dimensione gestibile, meno astratta o iperoggettistica. È allora di volta in volta un problema contingente, una seccatura al lavoro, un’ingiustizia, una sfortuna; un bene che non ci si può permettere. Non si mette di traverso (considera stupido mettersi di traverso per contrastare una forza incommensurabilmente più grande) e non ha gli strumenti per cavalcare la tigre né per dominare realmente il proprio destino. Tale atteggiamento, vale a dire quello di chi accetta l’orizzonte in cui gli capita di vivere e muoversi come unico “reale”, tra tutti è il più sano. Non ha senso combattere ciò che non si capisce o non si vede, ciò che di fatto ci determina e determina la nostra sopravvivenza gestendo le sostanze vitali e ricreative. Ne abbiamo visti tanti di eroi fare una brutta fine. L’importante è ritagliarsi il proprio spazio dove accantonare un certo numero di soddisfazioni personali, dare sfogo ai piaceri, coltivare i propri affetti, senza darsi troppa pena per le questioni macroscopiche, che tanto non possiamo risolvere né influenzare. Vivere come si deve vivere insomma, senza pippe astratte.

Il terzo gruppo, che nel grafico sta sotto, è una minoranza come il primo, ma simmetrica e in opposizione. Gli individui di questo gruppo sanno tutto sul capitalismo, hanno la verità in tasca (come li capisco, anch’io come loro: sono decine i saggi, le opere artistiche, gli articoli, i libri che ho letto sull’argomento e che continuano ad uscire, riproponendo con varianti, sempre più chiaramente e sempre più senza speranza, la visione apocalittica e disfattista). Vedono il meccanismo scoperto, il cofano della macchina alzato, i manicotti sporchi e unti, il motore arroventato e fumante sotto lo splendore della carrozzeria. E non riescono proprio a far finta che non sia così. Alla fine chi ragiona e rimugina criticamente sul capitalismo è l’unico per cui il capitalismo esiste veramente, con tutta la sua forza schiacciante e violenta, è l’unico a soffrirne e spaccarsi la testa, a farne le spese e venire dominato dall’oggetto della sua riflessione. A guardarlo, a fissarlo, il capitalismo, non fa altro che renderlo evidente, alimentare e ingigantire il potere che ha sulla mente di chi lo guarda.

Va detto che anche le persone del primo gruppo comunque non sono immuni da sofferenze, perché anche dominare implica un coinvolgimento intellettuale ed emotivo notevole (anche più di sopravvivere), tanto da procurare stress assoluti e disagi che possono essere fatali; fame continuamente alimentata e insoddisfatta, ansie, depressioni, la sensazione di essere persone normali, banali, e non supereroi del consumo spettacolare.

Se il primo gruppo prova a dominare il capitalismo, il secondo si pone in una sorta di accettazione pacifica della schiavitù, più possibile indolore e che garantisca l’illusione di un personale e privato margine di manovra dove vivere, godere e mandare avanti la specie, l’individuo del terzo e ultimo gruppo è l’unico che viene dominato brutalmente dal capitalismo. Direi quasi “volontariamente” dominato, e di sicuro consapevolmente. La consapevolezza fa la differenza. Tanto che il capitalismo riempie anche per lui ogni orizzonte possibile e, anche se immagina che ci possa e debba essere qualche alternativa al di là dell’immagine colossale che gli si para davanti quotidianamente e annulla ogni possibilità di vista diversa tranne sé stessa, la sua vita è avvelenata da tale pensiero. Vive in prigionia a piede libero.

Il capitalismo esiste solo per chi lo critica. Per tutti gli altri è solo la vita normale. Sai, alti e bassi, come per tutti. Da che mondo è mondo. Il peso? Basta non farci caso, basta non sentirlo. E allora a venire schiacciati sono i Mark Fisher.

Le cose stanno cambiando? (segue parte II).


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