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Il correlativo oggettivo in gran forma

Si è già capito che qui i capitoli si affastellano, stanno insieme ma senza rispettare l’ordine che ci si aspetterebbe dalla cronologia dei post; ovvero un ordine esterno al contenuto, arbitrario e obbligato da una forma precostituita, un po’ sbrigativa. Una forma che ti leva il pensiero. Ma proverò a farne, di questa forma, qualcosa di più vicino possibile a ciò che mi appartiene, ovvero una pratica, entropica tendenza alla necessità di capire. Nulla a che vedere insomma con quello che succede realmente.

Ciononostante dopo un po’ uno dovrebbe cominciare a farsi un’idea di ciò che succede, qui come altrove. Lo spero. Vi si dovrebbero trovare relazioni, rimandi, precisazioni o approfondimenti. Eppure, post dopo post, potrebbe rimanere comunque poco chiaro dove si va a parare. Ciò che sembrava il punto di partenza in realtà era solo un punto di passaggio; ciò che poteva sembrare un fulcro, solo un momentaneo ingorgo, e ciò che pareva marginale o un dettaglio d’arredo, una corposa linea di sviluppo. La strada maestra si spezza, si assottiglia, si dirama. Sparisce.


Non è così semplice. Main street è una metafora fin troppo leggibile, un po’ frusta. Per niente originale. Eppure… non si tratta di compilare un catalogo, di estrapolare degli scatti significativi della strada per mostrare magari come sono i paesi, i posti in cui viviamo. Non si tratta di additare le brutture, le mostruosità edili, né le imperterrite tracotanze della segnaletica commerciale (a dire il vero molto più in salute dei commerci a cui si riferiscono), lo stato di degrado (parola cara ai nostalgici dell’antropocentrismo politicamente ed esteticamente corretto), la trascuratezza in cui versa il territorio e il terreno. Fin troppo facile; già fatto e già detto.

Con gli oggetti che ci circondano abbiamo intrattenuto un rapporto sempre più stretto ed emotivamente insondabile, tanto che ora ci compenetrano e ci informano chiaramente sulla qualità della nostra persona. Si è andati ben oltre il correlativo oggettivo. Di questo rapporto contaminante la letteratura è piena.

Però non è nemmeno questo, non del tutto. C’è qualcosa di offuscato che ci sfugge: ciò che vediamo, ma è più corretto dire ciò che percepiamo con i sensi, ci sta sfuggendo. È già accaduto. Come si sa, quando pensiamo alla fine, la fine è già avvenuta. Quando scatta l’allarme antincendio l’incendio non solo è già in corso ma è già avvenuto. Ciò che accade dopo l’allarme è solo una razionalizzazione, una verbalizzazione se vogliamo, e un processo di elaborazione per normalizzare il trauma, per riportarci a una (nuova) normalità: del fatto compiuto.

È già accaduto. È cominciato quando l’oggetto non è stato più soltanto lo specchio del nostro sentire ma è diventato il sentire stesso. E poi non era più soltanto una percezione di fronte alla quale ci si scioglieva o si rabbrividiva, ma è diventato un antagonista amato e venerato con cui appunto entrare in competizione.

All’immedesimazione e alla venerazione è subentrato un senso di inferiorità, non so quanto diversa dal senso del sublime e del sacro, che ci fa invidiare la pulizia dell’oggetto. Il suo lucido stare al mondo. La mancanza di bisogni corporali, di paura, di dolore fisico prima ancora che mentale.


L’esterno ci sfugge. L’altro, ci sfugge. Il senso si sposta dove non siamo più in grado di raggiungerlo, si ritira e si slancia in posti dove non siamo più in grado di ritrovarlo. In ogni caso per noi si allontana.

Allontanandosi si porta dietro, per le proprietà attrattive gravitazionali di un corpo celeste, come funziona per i pianeti e le orbite dei satelliti, la nostra interiorità.

Ci prodighiamo per riempire il vuoto che si va formando con prodotti di nostra ideazione, sapientemente brevettati affinché nemmeno una goccia di sostanza economica, una goccia del loro valore, vada dispersa.


Una vetrina sfondata lungo una strada statale ha sempre voluto dire uno stato di angoscia, uno spirito incrinato, lacerato dalla violenza che colpisce duramente. Ci si può aggiungere l’alienazione e la miseria, la critica al consumismo e la banalizzazione dell’etica sociale.

Ora è un varco perlustrato troppe volte inutilmente, attraverso il quale abbiamo smesso di intrufolarci per interrogarne le viscere scosse. Cosa c’è di là non interessa. Ora è una spacca normale, del tutto naturale come molte altre. L’aria vi passa attraverso e cambia, ma non ce ne accorgiamo.

Se ci accostassimo ancora una volta, seriamente, sentiremmo una terribile attrazione. Ma non potremmo comunque circoscriverne un senso; che è prima di tutto un rimedio.

È un’altra dimensione, un piano di realtà scivolato sopra quest’altro fuori posto. Un avvicendarsi casuale o inatteso, passato quasi inosservato. Una tettonica esistenziale.

Le strade, come tutte le superfici su cui scorrono le nostre vite e che mostrano le crepe in questo piano di realtà e nei nostri rapporti, sono intasate di stimoli perlopiù ritenuti inutili. Questo per lo stato infiammatorio in cui versa il nostro pensiero critico. Sono ridotte a luoghi di esperienza emergenziale, come capita dopo i terremoti o dopo le alluvioni; sono posti dove per affrontare il dopo di qualunque cosa sia avvenuta, tiriamo su in fretta delle strutture di prima accoglienza nella speranza che siano solo provvisorie, strutture "campo base" per intervenire e provare ad arginare e ricostruire. Tende, raggruppamenti di container, bagni chimici, ospedali da campo, tensostrutture.

Viviamo in tensostrutture. Ci perdiamo il sonno, i neuroni, la vita lì dentro. Lattiginose meduse della mente.

Dentro si muovono i volontari, indaffarati e stanchi, entusiasti e infaticabili, ignorati e compatiti dalla maggior parte delle persone che lungo le strade, al cospetto del danno, si muovono indaffarate per accaparrarsi provviste e fare scorte perché non si sa mai... si scannano per cercare di mettere al sicuro i propri averi e sentirsi a loro volta al sicuro. E in questo non c'è proprio niente di male.



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