L’idea è quella di mappare paese dopo paese, metro per metro gli edifici – ma non solo: tutto quello che si vede – lungo la strada principale che attraversa la regione appena sotto la dorsale pedemontana, o quella che risale dalla laguna alle montagne. Due delle tante direttrici che mettono in croce i trasporti e gli spostamenti dei miei compaesani.
Mappare con la fotocamera o le parole; per rivedere, per vedere come per la prima volta, al netto di pregiudizi e luoghi comuni, i posti in cui viviamo, e provare a sottrarli alla trascuratezza in cui li abbiamo confinati, proprio come dovremmo fare con le nostre vite.
La strada principale, l’arteria primaria di una città, la via più importante attorno alla quale un tempo si organizzava la vita commerciale e sociale di una comunità, è anche, in molte cittadine della provincia veneta – così come accade per le cittadine statunitensi, da cui prendo la definizione di Main Street – la via che taglia il paese per lungo e lo attraversa.
Molte delle nostre cittadine e paesi si trovano, per questo motivo, ad avere un “centro” che non è un vero e proprio centro; è difficile avere una piazza, un luogo prediletto di aggregazione e condivisione civile come succedeva per il Foro Romano, quando una strada statale ci passa in mezzo con il traffico pesante. È evidente che molti paesi negli anni hanno prosperato proprio perché sono nati lungo una via di comunicazione primaria; così come lungo un fiume, in un porto sicuro, all’imbocco di una valle. Una strada statale, una provinciale.
La strada maestra è un'arteria che convoglia il flusso sanguigno. E proprio come in un sistema circolatorio le strade secondarie irrorano il tessuto urbano attraverso le vene e i capillari. Altresì la strada osserva quel flusso. E lo genera in abbondanza.
Quello che è successo negli anni lungo le statali che perforano e raccolgono i paesi – perline di un’unico, stretto girocollo – è sotto gli occhi di tutti eppure (anzi proprio per questo) invisibile. Oppure lo si ignora, volontariamente.
Molti sono i motivi, a cominciare dal declino economico del Paese, legato a una diversa direzione che hanno preso i commerci e la relazione tra comunità e individui. I pensieri si sono fatti leggeri, sempre meno legati al territorio reale e sempre più impalpabili, come l’atmosfera o le allucinazioni nel dormiveglia, e hanno fatto sì che quelle comunità, sempre che siano esistite davvero, – che ora vengono rievocate e storpiate dalla politica, fatte rivivere durante improbabili rivisitazioni storiche e pantagrueliche sagre annuali – si disgregassero e si riconcretizzassero alla bell'e meglio in superfetazioni periferiche, esterne, marginali piuttosto che lungo il filo consunto della strada principale. Macerie di un’esplosione interna, che sta disperdendo detriti a raggiera. Dove questi si fermano, vengono riusati per costruirci qualcosa.
Se il centro si è esaurito, centro per la cui tutela ci si accanisce senza alcuna vera empatia, agitati da slogan che ci avvelenano senza cura, non ci stiamo accorgendo davvero come dovremmo di due cose: la prima che a farne le spese sono prima di tutto i più deboli mentre salvaguardiamo i più forti (vedremo in che modo), e poi che in quello spazio rimasto vuoto – che le chiacchiere, per quanto ne buttiamo dentro non riescono a riempire – si sta radicando, e si fa ogni giorno più potente, qualcosa di nuovo. Ma non così alieno.
immagine: SP 248 I/46
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