I poeti dovrebbero avere una risposta alla domanda Che cos’è la poesia? Pare ovvio. È anche in questo modo che dimostrano consapevolezza del proprio lavoro e dei propri mezzi. A molti poeti piace che gli si chieda cos’è la poesia.
Ne viene fuori di solito una risposta articolata o una formula, delle parole pensate, scelte con cura e organizzate per dirlo, o per dire anche cos’è la letteratura o, perché no, la scrittura tout court. Dipende dall’indole. Alcuni, addirittura, tolgono il "per me" e dicono chiaro e tondo che la poesia è assolutamente x. Non sempre le risposte assolute coincidono. Mi viene da pensare che non si siano messi d’accordo prima. Magari è solo una svista: può capitare che per la fretta, avendo già la risposta pronta in canna, si siano dimenticati di circoscrivere il campo d’applicazione delle loro parole, ovvero quello dell’esperienza personale, omettendo il "per me" che risolve quasi ogni controversia.
Penso che chi ha preparato con cura la risposta voglia comunicare qualcosa.
Mentre in gioventù rispondevo spavaldo, a un certo punto sono stato colto da un limpido panico; questo sì limpido e chiaro, altro che la risposta. Il dilettantismo faceva sicuramente la sua parte, ma non era l'unica ragione, solo che non lo sapevo. Ho scoperto di recente un motivo profondo, e un ulteriore panico, rilanciato dalla scoperta fatta, si è concretizzato. Un panico di tipo diverso: esistenziale più che culturale. Nessuna risposta pronta, efficace, originale, felice, arguta, per dire cos’è la poesia. Possibile che non sia in grado di dire bene cosa mi passa per la testa a proposito della scrittura?
Il fatto è che ho paura di trovare una degna risposta. Ho paura che quello sarebbe il giorno in cui potrei smettere di scrivere, perché avrei scoperto ciò per cui vivo e penso tanto a lungo; come un giocattolo che all'improvviso scopra dietro la propria schiena l’alloggio delle pile (un po’ come è capitato a Buzz Lightyear di Toy Story).
C’è questa poesia che ho appena letto. È in un libro che mi è stato consigliato da E., un amico libraio. Io, che non sapevo nulla dell’autore, così come il libro si presentava non lo avrei mai acquistato. La solita storia del libro e della copertina. Ma E. mi conosce bene: dice che ne vale la pena.
Il volume si apre con questa, tratta dalla raccolta Gli orsi danzanti del 1954 (è un volume antologico):
On the subject of Poetry
I do not understand the world, Father.
By the millpond at the end of the garden
There is a man who slouches listening
To the wheel revolving in the stream, only
There is no wheel there to revolve.
He sits in the end of March, but he sits also
In the end of the garden; his hands are in
His pockets. It is not expectation
On which he is intent, nor yesterday
To which he listens. It is a wheel turning.
When I speak, Father, it is the world
That I must mention. He does not move
His feet nor so much as raise his head
For fear he should disturb the sound he hears
Like a pain without a cry, where he listens.
I do not think I am fond, Father,
Of the way in which always before he listens
He prepares himself by listening. It is
Unequal, Father, like the reason
For which the wheel turns, though there is no wheel.
I speak of him, Father, because he is
There with his hands in his pockets, in the end
Of the garden listening to the turning
Wheel that is not there, but it is the world,
Father, that I do not understand.
Sul tema della poesia
Io non capisco il mondo, Padre.
Vicino alla roggia in fondo al giardino
c’è un uomo che si china per ascoltare
la ruota che gira nel ruscello, solo
non c’è nessuna ruota che gira.
Siede alla fine di marzo, ma siede anche
alla fine del giardino; le mani infilate
nelle tasche. Non c’è aspettativa
in cui sia assorto, né un ieri
a cui presti ascolto. È una ruota che gira.
Quando parlo, Padre, è il mondo
che devo rievocare. Lui non muove
i piedi nemmeno alza la testa
per paura di disturbare il suono che ode
come un dolore senza un grido, lì dove ascolta.
Non penso mi piaccia, Padre,
il modo in cui sempre, prima di ascoltare,
si prepara ascoltando. È
incongruo, Padre, come la ragione
per cui la ruota gira, anche se non c’è ruota.
Parlo di lui, Padre, perché lui è
lì, con le mani nelle tasche, alla fine
del giardino, ascoltando girare
la ruota che non c’è, ma è il mondo,
Padre, che non comprendo.
Si tratta di una poesia di W.S. Merwin e il volume è L’essenziale, pubblicato da Ubiliber 2022. Leggo dal colophon che Ubiliber è la casa editrice dell’Unione Buddhista Italiana. La traduzione è di Chandra Candiani.
Ammetto che all’inizio quel “Father” mi dava fastidio. Poi, con l’andare dei versi, la parola ha per me trovato un equilibrio accettabile, in rapporto con gli altri personaggi presenti, ovvero con chi dice io nella poesia e con l’uomo misterioso che ascolta la ruota. Di quest’ultimo trovo molto interessante l’ambiguità, il momento di incertezza che mi coglie quando cerco di scovarne l’identità, precisa e simbolica, e un senso (del resto mi è sempre piaciuto il depistamento messo in atto attraverso le persone grammaticali, tanto da averne fatto una cifra stilistica. Sfido chiunque a dire con certezza chi sia l’io, il tu, il noi eccetera, nei miei testi).
Quel “revolving”, riferito alla ruota, mi pare molto più significativo del “gira” in italiano; ci sento anche un “orbitare” con un pizzico di ossessione e un tormento, tanto patogeno quanto estenuato. Il "turning" lo dice dopo, alla fine della seconda strofa, e il significato è diverso. È una ruota che gira: la semplicità di una frase sentita un milione di volte, che trova un senso di nuovo particolare.
Il resto lo lascio lì, per l'ascolto.

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